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UN ATTIMO, UNA VITA
(BOBBY DEERFIELD)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 24 agosto 1978
 
di Sidney Pollack, con Al Pacino, Marthe Keller, Anny Duperey, Romolo Valli (Stati Uniti, 1978)
 
Sidney Pollack, come Altman, come Rafelson, come Boorman o Spielberg, rappresenta il meglio del cinema americano di oggi. Quello che ha raccolto l'eredità dei Kazan, dei Kubrick, dei Penn, che rappresentano ormai quella generazione che si suole definire di mezzo. Questi nomi si usava contrapporli a quelli di Coppola, Pakula, Scorsese, Ashby, Schatzberg, Fosse, Mazursky, Sarafian: gente di grande talento, ma maggiormente tentata dalle leggi dello spettacolo. Sennonché di tutti costoro il solo a tenersi al di fuori di ogni sospetto è Robert Altman, che continua una carriera di invidiabile coerenza. Rafelson, dopo un capolavoro come CINQUE PEZZI FACILI ha girato il discutibile STAY HUNGRY; Boorman dopo l'indimenticabile DELIVERANCE ha fatto ZARDOZ e il sempre più incerto ESORCISTA II; Spielberg quell' INCONTRI RAVVICINATI che, per abilissimo che sia, è assai lontano dalla poesia dell'altro celebre monumento di fantascienza, GUERRE STELLARI. E allora?

Il fatto è che per un uomo di cinema americano è difficile fare delle opere «pure», possedute dall'A alla Z. Il sistema americano non è quello svedese, nel quale un Bergman può continuare una vita a girare dei film in bianco e nero sull'assenza di Dio. E per un Kubrick che gira un film ogni tre o quattro anni, controllandolo quasi totalmente, ci sono tutti gli altri che, a torto o a ragione, devono girare dei film con Al Pacino o Robert Redford e decine di elettricisti e costumisti. Cosi, di conseguenza, sottostare alle regole del gioco. Il che, oltre che creare il «mestiere » cinematografico più elevato del mondo, non ha mai impedito agli uomini di genio dì quel cinema di emergere. Al contrario: il fascino del cinema di Nicholas Ray, di Preminger o di Minnelli, consisteva proprio in quella ricerca e scoperta di temi che, in modo quasi commovente, affioravano tra le righe di vicende e di personaggi imposte dalla produzione.

Questa lunga introduzione non è per scusare BOBBY DEERFIELD, che non ne ha bisogno. Ma per tentare di chiarire certi alti e bassi, a prima vista sconcertanti, di alcuni grandi del cinema di oggi. Avrete comunque compreso che l'ultima opera dell'autore di JEREMIAH JOHNSON, da alcuni indicata come insopportabile polpettone, non ci è dispiaciuta. Pollack, come già nell'ottimo COME ERAVAMO, gioca scopertamente la carta del film romantico, del melodramma sentimentale: BOBBY DEERFIELD è la storia di due rincorse parallele alla morte. Quella di un corridore automobilistico di formula uno, e quella di una giovane leucemica. Si può, facendo dei melodrammi, girare dei capolavori: la retrospettiva che Locarno ha dedicato quest'anno a Douglas Sirk insegna. Certo, è più difficile (ma sarà poi vero?) far digerire questo genere alle platee che si vogliono smaliziate degli anni Settanta, piuttosto che ricalcare i sentieri risaputi del thrilling o del dramma psicologico. Per giudicare questo genere di film occorre una certa distanzazione storica: forse BOBBY DEERFIELD non è un capolavoro. Perché, al contrario di COME ERAVAMO, non è inserito in un contesto storico, in un ambiente che l'autore riesce ad osservare criticamente, a dinamitare dall'interno del racconto. Pollack, l'Europa di qui la conosce e la interpreta assai meno acutamente che l'America roosveltiana di THE WAY WE WERE. E certe panoramiche turistiche della Svizzera prealpina, delle palme di Bellagio o dei ponti di Firenze stentiamo a digerirli. Ma, prima di tutto questo, osservate con quale genio straordinario Pollack dirige l'istrionico Al Pacino e la tutt'altro che malleabile svizzerotta Marthe Keller. Osservate come lascia ai due tutto il tempo occorrente per conoscersi, per affrontarsi, per amarsi. La lunghezza insolita dei piani-sequenza di BOBBY DEERFIELD, questo respiro sempre più ampio che assume l'incontro dei personaggi sullo schermo è il frutto di una sensibilità registica non comune, di una intuizione quasi magica del momento filmato. Pollack non tenta di sfuggire al genere love-story: sembra anzi parteciparvi con una sorta di distacco divertito. Ma, all'interno di questo schema, due personaggi si avvicinano, ed evolvono. No, Pollack non è ancora Lelouch.


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